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In età adulta.
Tommaso Pincio
La persona ritratta è in effetti giovane, anche se non giovanissima, come lascia pensare il titolo dell'opera. «Infantom» contiene un evidente richiamo all'infanzia ma è in realtà il prodotto di una crasi, una fusione di "infant" con "phantom". Il senso è appunto questo: che ogni adulto è il fantasma della persona che era da bambino. Questa verità, ben nota a chi si occupa di psiche, a me è apparsa evidente osservando sui social le foto di persone che erano bambini o giovanissimi venti o trenta anni fa, quando i social ancora non esistevano e le foto si scattavano ancora alla vecchia maniera, con il clic analagico, e la persona ritratta veniva colta con un'espressione di sorpresa che si è andata oggi perdendo perché la fotografia odierna, che io chiamo telefonica ovvero a costante portata di mano, ha banalizzato quel momento trasformandolo in altro, in una affermazione della propria persona, in quello che viene chiamato selfie. A ogni modo, osservando le foto di quei bambini e giovanissimi di un tempo, mi sono reso conto di quanto in quei volti mi apparissero i fantasmi degli adulti che quei bambini e giovanissimi sarebbero poi diventati e questo soprattutto quando i volti delle persone ritratte appartenevano a adulti che conosco, persone cioè di cui conosco l'aspetto attuale. Si dice che nelle rughe di un viso siano leggibile le esperienze di una vita. Non so quanto questo risponda al vero. Io ormai mi sorprendo più a cercare il bambino quando osservo una persona avanti negli anni, chiedendomi cosa sopravviva in lui o in lei della persona che era. Per questo l'Infantom è sfocato e l'unico tratto che conserva un minimo di definizione è l'occhio: perché è quasi sempre, se non esclusivamente nell'occhio, che bambino e adulto restano uguali. Se l'occhio è lo specchio dell'anima, come si dice, è appunto perché è la parte di noi che invecchia meno, quella in cui è cristallizzata la parte più profonda di noi, la sola che non mostra rughe ma soltanto una luce, malinconica o spensierata che sia, impaurita o aggressiva. Guardare l'Infantom è dunque per me come guardarsi in uno specchio del tempo. Ci allontaniamo progressivamente dalla persona che eravamo, per cui l'immagine ci appare sempre più sfocata, ma in quella nebbia un occhio seguita a guardarci. E non importa che il volto in questione ci appartenga, che sia il nostro. Ogni volta che, da adulti, osserviamo un ritratto, quel volto ci appare come una Sfinge che noi interroghiamo. La scelta di un soggetto femminile è dettata appunto dall'esigenza di rappresentare un altro da me, un volto che si ponga nei termini dell'enigma da interrogare, come in una specie di tuffo a ritroso nel tempo.
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Tommaso Pincio
La persona ritratta è in effetti giovane, anche se non giovanissima, come lascia pensare il titolo dell'opera. «Infantom» contiene un evidente richiamo all'infanzia ma è in realtà il prodotto di una crasi, una fusione di "infant" con "phantom". Il senso è appunto questo: che ogni adulto è il fantasma della persona che era da bambino. Questa verità, ben nota a chi si occupa di psiche, a me è apparsa evidente osservando sui social le foto di persone che erano bambini o giovanissimi venti o trenta anni fa, quando i social ancora non esistevano e le foto si scattavano ancora alla vecchia maniera, con il clic analagico, e la persona ritratta veniva colta con un'espressione di sorpresa che si è andata oggi perdendo perché la fotografia odierna, che io chiamo telefonica ovvero a costante portata di mano, ha banalizzato quel momento trasformandolo in altro, in una affermazione della propria persona, in quello che viene chiamato selfie. A ogni modo, osservando le foto di quei bambini e giovanissimi di un tempo, mi sono reso conto di quanto in quei volti mi apparissero i fantasmi degli adulti che quei bambini e giovanissimi sarebbero poi diventati e questo soprattutto quando i volti delle persone ritratte appartenevano a adulti che conosco, persone cioè di cui conosco l'aspetto attuale. Si dice che nelle rughe di un viso siano leggibile le esperienze di una vita. Non so quanto questo risponda al vero. Io ormai mi sorprendo più a cercare il bambino quando osservo una persona avanti negli anni, chiedendomi cosa sopravviva in lui o in lei della persona che era. Per questo l'Infantom è sfocato e l'unico tratto che conserva un minimo di definizione è l'occhio: perché è quasi sempre, se non esclusivamente nell'occhio, che bambino e adulto restano uguali. Se l'occhio è lo specchio dell'anima, come si dice, è appunto perché è la parte di noi che invecchia meno, quella in cui è cristallizzata la parte più profonda di noi, la sola che non mostra rughe ma soltanto una luce, malinconica o spensierata che sia, impaurita o aggressiva. Guardare l'Infantom è dunque per me come guardarsi in uno specchio del tempo. Ci allontaniamo progressivamente dalla persona che eravamo, per cui l'immagine ci appare sempre più sfocata, ma in quella nebbia un occhio seguita a guardarci. E non importa che il volto in questione ci appartenga, che sia il nostro. Ogni volta che, da adulti, osserviamo un ritratto, quel volto ci appare come una Sfinge che noi interroghiamo. La scelta di un soggetto femminile è dettata appunto dall'esigenza di rappresentare un altro da me, un volto che si ponga nei termini dell'enigma da interrogare, come in una specie di tuffo a ritroso nel tempo.
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