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11/07/2016
Uno per tutti, uno per uno: la cura psicoanalitica dei DCA in contesto istituzionale
immagine articolo Uno per tutti, uno per uno: la cura psicoanalitica dei DCA in contesto istituzionale Il 28 Giugno, alla casa della Psicologia, si è svolto il secondo incontro della rassegna “le istituzioni che curano”, sulla base della presentazione del libro di Michele Angelo Rugo, psichiatra e psicoanalista, e Erika Minazzi, psicologa e psicoanalista, entrambi formati alla scuola lacaniana ed esperti in disturbi del comportamento alimentare.

Ad accompagnarli, e ad animare la discussione, è stato il prof Massimo Recalcati, direttore scientifico dell’Irpa (scuola di psicoterapia a orientamento psicoanalitico lacaniano, riconosciuta dal MIUR), docente presso l’Università di Pavia, che lavora da oltre trent’anni nel campo dei DCA, fin da quanto era direttore clinico del Centro ABA (Anoressia, Bulimia e Obesità), alla fine degli anni ’80.

Il prof. Recalcati, insieme agli autori del libro, è stato pioniere della clinica preliminare dei DCA all’interno del gruppo monosintomatico, e in seguito, dopo molti anni di conduzione di gruppi e di supervisione, anche in ambito ospedaliero, ha fondato le prime comunità per pazienti con DCA, sia in Lombardia (nella provincia di Varese, dove lavora la dottoressa Minazzi), sia in Emilia Romagna (dove lavora il dott. Rugo).

Il testo è un resoconto e una disamina puntuale del lavoro clinico e degli strumenti che gli autori, avvalendosi della supervisione del prof. Recalcati, hanno messo a punto.

È impossibile – ci dicono gli autori – lavorare con i disturbi gravi dell’alimentazione, con il metodo psicoanalitico classico. E’ impossibile lavorare in studio, in un rapporto “uno a uno”, con la parola, e con il transfert, in tutti i casi in cui il sintomo invade tutta la vita del soggetto: è il caso delle gravi tossicomanie, dei disturbi alimentari, di molte dipendenze “senza sostanza”, ma anche dei più tradizionali e conosciuti disturbi psichiatrici, come le psicosi e i disturbi borderline, che in effetti vengono trattati in ambiente comunitario.

Quando una paziente è invasa dal sintomo, quando mangia e vomita più volte al giorno, oppure quanto il suo peso scende sotto soglie che le rendono impossibile una vita normale, facendo temere i suoi familiari per la sua vita e anche sconvolgendo attorno a sé ogni ritmo e ogni quotidianità, il dispositivo psicoanalitico classico non è più in grado di mettere un argine.

Le mura dell’istituzione, il “taglio” anche traumatico che l’allontanamento comporta per queste pazienti, diventa un elemento fondamentale della cura. Taglio, allontanamento, regolazione, ritmo, pacificazione, affidabilità.

Le mura dell’istituzione da una parte, e il transfert sull’équipe, dall’altra, diventano gli strumenti da cui si parte, per effettuare una prima accoglienza, un preliminare che consente quella separazione dal godimento del sintomo, senza la quale nessuna parola può raggiungere corpo del soggetto.

Il lavoro che si svolge in istituzione è, tuttavia, assolutamente orientato al discorso psicoanalitico, dunque la multidisciplinarietà, la moltitudine di offerte relazionali (gruppi, momenti di parola, uscite, scambi, pasti in comune) servono a mettere gli operatori in condizioni di comprendere cosa muove il soggetto, quali sono le esigenze profonde e come rianimare, in definitiva, la capacità di desiderare e di vivere.

Anche la diagnosi, la posizione soggettiva rispetto all’oggetto cibo, servono certamente come bussola, ma l’obiettivo non è, come nel caso della psichiatria, quello di “normalizzare” il soggetto o di “rieducarlo”. L’obiettivo è cercare di far emergere le risorse e la creatività del soggetto, la sua personale e particolare possibilità di guarigione.

Guarire, a volte, significa anche tenere qualcosa dell’assetto sintomatico, trasformando la relazione che si ha con il sintomo e rendendolo meno tirannico.

Centrale, nell’approccio istituzionale orientato alla psicoanalisi, è il transfert degli operatori e del soggetto sull’équipe. Lavorare con soddisfazione, avere il desiderio di apprendere dai soggetti e dall’esperienza, è l’antidoto alla logica disciplinare, o verticale, dove c’è un “capo” (il responsabile clinico, per esempio) che sa e che decide, mente gli altri eseguono, o si oppongono, o creano sacche di resistenza.

L’équipe segue invece una logica circolare, con un vuoto al centro. Tale vuoto, può essere riempito dal soggetto, che attraverso le sue richieste, i suoi errori, le sue ricerche di relazione, può trovare modalità diverse, pacificate, meno conflittuali e meno dipendenti di relazione con l’Altro.

In comunità, esistono regole per la condivisione dei pasti, regole che impediscono il consumo di cibo in vari momenti della giornata, regole che impediscono l’accesso ai bagni in determinati momenti. Tuttavia tali regole non sono impersonali e imposte dall’alto. Tutto è negoziabile (caso per caso), e comunque di tutto si può parlare, in momenti strutturati.

La protesta, l’opposizione del soggetto, viene valorizzata come strumento di cura, così come le sue inclinazioni artistiche o intellettuali. Sono energie che servono alla cura, energie che il soggetto può canalizzare. L’istituzione, dunque, le mura, l’équipe, come strumento di lavoro, come mezzo, e non come fine.

L’équipe di Villa Gruber, sui colli bolognesi, è un’équipe con professionisti provenienti da esperienze teoriche e cliniche disparate: cognitivisti, sistemici, psicoanalisti di vari orientamenti, psichiatri, e altri operatori con specializzazioni diverse, nel campo della riabilitazione.  “La clinica è una scienza. Se si impara a leggere un caso e si apprendono le logiche della conduzione della cura, i risultati ottenuti convincono, al di là dei diversi linguaggi” Ci dice Massimo Recalcati. Non è importante la psicoanalisi o la sistemica, la psichiatria o la fenomenologia, pur rispettabilissimi; ciò che conta è la lingua del soggetto.  Non sono importanti le dinamiche dell’équipe e il controtransfert. E’ importante insegnare ad ascoltare e a sintonizzarsi sul soggetto. E’ l’efficacia stessa della cura che convince, e che, a sua volta, aiuta l’équipe a mantenere vivo il desiderio, il transfert di lavoro, a salvaguardare il vuoto di sapere, che impedisce che le logiche immaginarie e conflittuali prendano il sopravvento”
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