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Torna all'elenco22/11/2023
“Un minuto di rumore” la riflessione di Elisabetta Camussi
La morte di Giulia Cecchettin è stata un femminicidio che nella sua tragicità si potrebbe definire “perfetto”.
Come psicologhe e psicologi non possiamo infatti non notare quanto la dinamica dei fatti, la sua articolazione, l’intervallo temporale tra la scomparsa e il ritrovamento, la fuga dell’assassino, i volti e le storie dei protagonisti, delle famiglie, della sorella di Giulia abbiano permesso al sentire comune un processo di identificazione e rispecchiamento raramente accaduto prima.
Giulia non è la prima donna giovane ad essere uccisa dall’ex, né la prima studentessa.
Certo non è la prima donna uccisa nel 2023 – semmai la numero 105. Ma la sua è la prima storia a cui molte persone delle diverse età hanno partecipato mentre accadeva, e non solo post mortem, come solitamente avviene.
Questa partecipazione è stata possibile perché, diversamente dalle altre vicende, la narrazione di quanto stava accadendo aveva sì le forme del racconto giornalistico, ma su questo prevalevano le parole dei famigliari e più di tutte quelle di Elena Cecchettin, la sorella.
Elena che, ancora una volta diversamente da quanto accaduto per i femminicidi precedenti, ha avuto da subito, poco dopo la sparizione dei due giovani, “le parole per dirlo”.
Raccontando i segnali allarmanti che aveva colto nella relazione di Giulia con il fidanzato, anche dopo il termine della storia. E provando a descriverli con la lucidità di chi su queste tematiche ha pensato, studiato, appreso, condiviso. La sua capacità di definire l’omicidio della sorella come l’esito di una violenza e di una discriminazione contro le donne di tipo sistemico, e dunque non rubricabili nella pseudo spiegazione del raptus, ha avuto un effetto spiazzante: perché normalmente questa narrazione appartiene alle esperte -non ai famigliari-, che cercano di tenere in considerazione tanto il caso singolo quanto la sistematicità di atteggiamenti e comportamenti collettivi, unitamente alla necessità di interventi di prevenzione che investano la società tutta.
Grazie a Elena, ragazze e ragazzi, nelle scuole, hanno capito forse oggi per la prima volta che la violenza contro le donne, definita dall’ONU un’epidemia non riconosciuta, è un tema che li riguarda. E hanno risposto al minuto di silenzio proposto dalle scuole con un minuto di rumore.
A questo rumore, a questa rinuncia al silenzio che da sempre connota la violenza di genere e l’impossibilità di riconoscerla o dichiararla, e che non riguarda solo chi va a scuola, la psicologia può e deve rispondere con competenza.
Psicologhe e psicologi hanno infatti l’expertise per riconoscere che le violenze e le discriminazioni, contro le donne e non solo, hanno effetti traumatici. Sanno altrettanto bene, occupandosi di atteggiamenti e comportamenti, quanto i processi di socializzazione siano influenzati da prescrizioni stereotipiche sui ruoli di genere.
E conoscono infine la complessità delle dinamiche tra autonomia e indipendenza che connotano le relazioni affettive e la necessità che su questo si intervenga con competenze professionali a partire dai primi anni di vita, nei contesti scolastici, nel gruppo dei pari, con gli adulti.
Per questo, agire professionalmente per promuovere il cambiamento sociale è certamente il modo per impedire che il rumore di questa morte duri troppo poco.
Elisabetta Camussi
Ph.D in Psicologia, psicologa e Professoressa Associata di Psicologia Sociale al Dipartimento di Psicologia dell’Universitа di Milano-Bicocca. È coordinatrice del Comitato Pari Opportunitа (CPO) dell’Ordine degli Psicologi della Lombardia (OPL) e componente del Comitato Pari Opportunitа nazionale, presso il Consiglio Nazionale dell’Ordine degli Psicologi (CNOP).
Come psicologhe e psicologi non possiamo infatti non notare quanto la dinamica dei fatti, la sua articolazione, l’intervallo temporale tra la scomparsa e il ritrovamento, la fuga dell’assassino, i volti e le storie dei protagonisti, delle famiglie, della sorella di Giulia abbiano permesso al sentire comune un processo di identificazione e rispecchiamento raramente accaduto prima.
Giulia non è la prima donna giovane ad essere uccisa dall’ex, né la prima studentessa.
Certo non è la prima donna uccisa nel 2023 – semmai la numero 105. Ma la sua è la prima storia a cui molte persone delle diverse età hanno partecipato mentre accadeva, e non solo post mortem, come solitamente avviene.
Questa partecipazione è stata possibile perché, diversamente dalle altre vicende, la narrazione di quanto stava accadendo aveva sì le forme del racconto giornalistico, ma su questo prevalevano le parole dei famigliari e più di tutte quelle di Elena Cecchettin, la sorella.
Elena che, ancora una volta diversamente da quanto accaduto per i femminicidi precedenti, ha avuto da subito, poco dopo la sparizione dei due giovani, “le parole per dirlo”.
Raccontando i segnali allarmanti che aveva colto nella relazione di Giulia con il fidanzato, anche dopo il termine della storia. E provando a descriverli con la lucidità di chi su queste tematiche ha pensato, studiato, appreso, condiviso. La sua capacità di definire l’omicidio della sorella come l’esito di una violenza e di una discriminazione contro le donne di tipo sistemico, e dunque non rubricabili nella pseudo spiegazione del raptus, ha avuto un effetto spiazzante: perché normalmente questa narrazione appartiene alle esperte -non ai famigliari-, che cercano di tenere in considerazione tanto il caso singolo quanto la sistematicità di atteggiamenti e comportamenti collettivi, unitamente alla necessità di interventi di prevenzione che investano la società tutta.
Grazie a Elena, ragazze e ragazzi, nelle scuole, hanno capito forse oggi per la prima volta che la violenza contro le donne, definita dall’ONU un’epidemia non riconosciuta, è un tema che li riguarda. E hanno risposto al minuto di silenzio proposto dalle scuole con un minuto di rumore.
A questo rumore, a questa rinuncia al silenzio che da sempre connota la violenza di genere e l’impossibilità di riconoscerla o dichiararla, e che non riguarda solo chi va a scuola, la psicologia può e deve rispondere con competenza.
Psicologhe e psicologi hanno infatti l’expertise per riconoscere che le violenze e le discriminazioni, contro le donne e non solo, hanno effetti traumatici. Sanno altrettanto bene, occupandosi di atteggiamenti e comportamenti, quanto i processi di socializzazione siano influenzati da prescrizioni stereotipiche sui ruoli di genere.
E conoscono infine la complessità delle dinamiche tra autonomia e indipendenza che connotano le relazioni affettive e la necessità che su questo si intervenga con competenze professionali a partire dai primi anni di vita, nei contesti scolastici, nel gruppo dei pari, con gli adulti.
Per questo, agire professionalmente per promuovere il cambiamento sociale è certamente il modo per impedire che il rumore di questa morte duri troppo poco.
Elisabetta Camussi
Ph.D in Psicologia, psicologa e Professoressa Associata di Psicologia Sociale al Dipartimento di Psicologia dell’Universitа di Milano-Bicocca. È coordinatrice del Comitato Pari Opportunitа (CPO) dell’Ordine degli Psicologi della Lombardia (OPL) e componente del Comitato Pari Opportunitа nazionale, presso il Consiglio Nazionale dell’Ordine degli Psicologi (CNOP).
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