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Torna all'elenco10/02/2017
Il Codice Deontologico degli Psicologi Italiani e il procedimento disciplinare.
Ho appreso con stupore che, in riferimento a un articolo recentemente pubblicato dal Corriere della Sera, sarebbero state divulgate informazioni e commenti contrastanti sul Codice Deontologico degli Psicologi e sull’iter disciplinare, nonché giudizi e valutazioni pubblici riferibili alla correttezza e competenza del consiglio dell’Ordine degli Psicologi della Lombardia, nonchè scorretti e indefiniti legami dei procedimenti ordinistici rispetto a eventuali procedimenti penali.
Ritengo, quindi. importante fare alcuni chiarimenti e ricondurre tutta la vicenda ai giusti ambiti di contesto, di correttezza e di veridicità.
Innanzitutto, è necessario ribadire che il Codice Deontologico degli Psicologi Italiani è uno strumento fondamentale di salvaguardia sia dell’utenza, sia della categoria professionale intesa nel suo senso più alto. Non certo come ‘casta’, quindi, ma come insieme di soggetti che intervenendo significativamente nella vita delle persone devono sapere essere all’altezza di tale delicatissimo ruolo, in ogni contesto.
Per tale motivo e per una tutela generale delle persone, ogni mio commento pubblico non può che ispirarsi alla scrupolosa osservanza degli obblighi derivanti dal segreto d’ufficio e dal rispetto del diritto alla riservatezza: l’Ordine mantiene il riserbo sui procedimenti così come i Giudici non commentano e non discutono sulla pubblica piazza il merito dei processi.
Ribadisco che le norme deontologiche, se da una parte rappresentano una garanzia importantissima per l’utente/cliente rispetto a comportamenti deontologicamente scorretti del professionista, dall’altra sono alla base della credibilità e dell’affidabilità della categoria nei confronti dell’esterno.
Autorevolezza e reputazione professionale, garanzia e qualità delle prestazioni dei professionisti passano anche attraverso la capacità di individuare e sanzionare ogni eventuale violazione e attraverso una diffusa consapevolezza civica di cosa sia la deontologia professionale e di come si svolga veramente l’azione disciplinare degli Ordini.
Nella mia visione, l’Ordine è un interfaccia di garanzia, assolve il ruolo di tessuto connettivo tra psicologi e cittadini, istituzioni ed enti di ricerca, con l’obiettivo generale di promuovere e garantire prestazioni di qualità nell’interesse di tutti.
In tale contesto, il procedimento disciplinare è lo spazio istituzionale in cui i Consiglieri sono chiamati a svolgere un compito giudicante nei confronti degli psicologi e in questo consesso essi funzionano come una “giuria competente e plurale”. Ciascun Consigliere ha modo di costruire la propria valutazione individualmente attraverso un confronto democratico e la decisione viene assunta votando a maggioranza dei presenti.
Sarebbe molto grave anche solo immaginare che queste valutazioni possano essere influenzate da giudizi politici, interessi o discriminazioni. Altrettanto grave, o forse pretestuoso, sarebbe credere che, laddove le decisioni risultino difficili e non unanimi, ciò sia riconducibile a qualche fantomatica “guerra tra psicologi” e non a un compito svolto in scienza e coscienza, in piena assunzione di responsabilità personale, attraverso un confronto leale e democratico e alla luce del massimo rispetto dei principi etici e deontologici.
Eventuali questioni personali, temi di politica professionale e interessi di altro tipo non hanno e non devono aver mai a che fare con la valutazione dei colleghi e non dovrebbero, per le ragioni etiche ed istituzionali sopra esposte, sfociare in esternazioni tali da influenzare l’interpretazione mediatica di fatti di cronaca. I media si rivolgono a tutti i cittadini, estranei alle logiche interne alla professione e privi dei necessari strumenti di decodifica di dinamiche coperte, peraltro, dal segreto d’ufficio.
Ogni eventuale divergenza può e deve essere risolta solo nelle sedi opportune, in cui possa svolgersi il giusto contraddittorio; sia per l’iscritto psicologo, sia per le persone coinvolte, sia per coloro che ritengono che il Consiglio possa avere in qualche caso errato nel valutare una vicenda specifica.
Quanto a uno dei casi descritti nell’articolo, basti dire che, dalla lettura del libro di Ilaria Cavo (“Il cortocircuito: storie di ordinaria ingiustizia”) emerge una clamorosa inesattezza in relazione a quanto pubblicamente dichiarato sulle pagine del Corriere della Sera, poiché il procedimento disciplinare utilizzato come esempio si concluse di fatto con un’archiviazione e NON con una sanzione.
Inoltre, dallo stesso libro risulta anche che, alla revisione della sentenza di condanna, hanno portato le prove emerse dagli atti del Tribunale per i minorenni e NON quanto rilevato in sede deontologica, posto che non poteva essere diversamente, in ossequio alla legge (artt. 630 e segg. CPP).
Al riguardo, è dirimente citare letteralmente il seguente passo della sentenza della Corte d’Appello di Brescia del 31.3.2007: […] Il collegio ritiene che la conclusione alla quale era pervenuta la commissione etica, di archiviazione del caso, non svolga alcun ruolo in questa sede […].
Mi preme, infatti, ribadire e chiarire definitivamente con queste argomentazioni che il procedimento disciplinare si svolge in modo assolutamente autonomo rispetto ai procedimenti penali, fatte salve le norme sulla efficacia della sentenza penale nel giudizio disciplinare (art. 653 cpp) e che, pertanto, nessuna regola prevede un’efficacia della decisione disciplinare nel giudizio penale.
Tutte queste argomentazioni, date nell’ufficialità e neutralità di una posizione istituzionale, restituiscono i fatti al loro corretto contesto e chiariscono che non ci sono guerre, crociate o giustizialismi fra colleghi.
Qualsiasi tentativo di fuoriuscita da tali coordinate può solo essere ritenuto inopportuno, forse ingenuo, e non è da escludersi pretestuoso.
Ritengo, quindi. importante fare alcuni chiarimenti e ricondurre tutta la vicenda ai giusti ambiti di contesto, di correttezza e di veridicità.
Innanzitutto, è necessario ribadire che il Codice Deontologico degli Psicologi Italiani è uno strumento fondamentale di salvaguardia sia dell’utenza, sia della categoria professionale intesa nel suo senso più alto. Non certo come ‘casta’, quindi, ma come insieme di soggetti che intervenendo significativamente nella vita delle persone devono sapere essere all’altezza di tale delicatissimo ruolo, in ogni contesto.
Per tale motivo e per una tutela generale delle persone, ogni mio commento pubblico non può che ispirarsi alla scrupolosa osservanza degli obblighi derivanti dal segreto d’ufficio e dal rispetto del diritto alla riservatezza: l’Ordine mantiene il riserbo sui procedimenti così come i Giudici non commentano e non discutono sulla pubblica piazza il merito dei processi.
Ribadisco che le norme deontologiche, se da una parte rappresentano una garanzia importantissima per l’utente/cliente rispetto a comportamenti deontologicamente scorretti del professionista, dall’altra sono alla base della credibilità e dell’affidabilità della categoria nei confronti dell’esterno.
Autorevolezza e reputazione professionale, garanzia e qualità delle prestazioni dei professionisti passano anche attraverso la capacità di individuare e sanzionare ogni eventuale violazione e attraverso una diffusa consapevolezza civica di cosa sia la deontologia professionale e di come si svolga veramente l’azione disciplinare degli Ordini.
Nella mia visione, l’Ordine è un interfaccia di garanzia, assolve il ruolo di tessuto connettivo tra psicologi e cittadini, istituzioni ed enti di ricerca, con l’obiettivo generale di promuovere e garantire prestazioni di qualità nell’interesse di tutti.
In tale contesto, il procedimento disciplinare è lo spazio istituzionale in cui i Consiglieri sono chiamati a svolgere un compito giudicante nei confronti degli psicologi e in questo consesso essi funzionano come una “giuria competente e plurale”. Ciascun Consigliere ha modo di costruire la propria valutazione individualmente attraverso un confronto democratico e la decisione viene assunta votando a maggioranza dei presenti.
Sarebbe molto grave anche solo immaginare che queste valutazioni possano essere influenzate da giudizi politici, interessi o discriminazioni. Altrettanto grave, o forse pretestuoso, sarebbe credere che, laddove le decisioni risultino difficili e non unanimi, ciò sia riconducibile a qualche fantomatica “guerra tra psicologi” e non a un compito svolto in scienza e coscienza, in piena assunzione di responsabilità personale, attraverso un confronto leale e democratico e alla luce del massimo rispetto dei principi etici e deontologici.
Eventuali questioni personali, temi di politica professionale e interessi di altro tipo non hanno e non devono aver mai a che fare con la valutazione dei colleghi e non dovrebbero, per le ragioni etiche ed istituzionali sopra esposte, sfociare in esternazioni tali da influenzare l’interpretazione mediatica di fatti di cronaca. I media si rivolgono a tutti i cittadini, estranei alle logiche interne alla professione e privi dei necessari strumenti di decodifica di dinamiche coperte, peraltro, dal segreto d’ufficio.
Ogni eventuale divergenza può e deve essere risolta solo nelle sedi opportune, in cui possa svolgersi il giusto contraddittorio; sia per l’iscritto psicologo, sia per le persone coinvolte, sia per coloro che ritengono che il Consiglio possa avere in qualche caso errato nel valutare una vicenda specifica.
Quanto a uno dei casi descritti nell’articolo, basti dire che, dalla lettura del libro di Ilaria Cavo (“Il cortocircuito: storie di ordinaria ingiustizia”) emerge una clamorosa inesattezza in relazione a quanto pubblicamente dichiarato sulle pagine del Corriere della Sera, poiché il procedimento disciplinare utilizzato come esempio si concluse di fatto con un’archiviazione e NON con una sanzione.
Inoltre, dallo stesso libro risulta anche che, alla revisione della sentenza di condanna, hanno portato le prove emerse dagli atti del Tribunale per i minorenni e NON quanto rilevato in sede deontologica, posto che non poteva essere diversamente, in ossequio alla legge (artt. 630 e segg. CPP).
Al riguardo, è dirimente citare letteralmente il seguente passo della sentenza della Corte d’Appello di Brescia del 31.3.2007: […] Il collegio ritiene che la conclusione alla quale era pervenuta la commissione etica, di archiviazione del caso, non svolga alcun ruolo in questa sede […].
Mi preme, infatti, ribadire e chiarire definitivamente con queste argomentazioni che il procedimento disciplinare si svolge in modo assolutamente autonomo rispetto ai procedimenti penali, fatte salve le norme sulla efficacia della sentenza penale nel giudizio disciplinare (art. 653 cpp) e che, pertanto, nessuna regola prevede un’efficacia della decisione disciplinare nel giudizio penale.
Tutte queste argomentazioni, date nell’ufficialità e neutralità di una posizione istituzionale, restituiscono i fatti al loro corretto contesto e chiariscono che non ci sono guerre, crociate o giustizialismi fra colleghi.
Qualsiasi tentativo di fuoriuscita da tali coordinate può solo essere ritenuto inopportuno, forse ingenuo, e non è da escludersi pretestuoso.
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