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Torna all'elenco24/06/2016
A tu per tu col Minotauro: ansia, angoscia e panico in una prospettiva psicoanalitica.
Resoconto della serata di presentazione del libro di Roberto Viganoni, 14 Giugno 2016 alla Casa della psicologia.
Il panico è un sintomo oggi molto diffuso, pervasivo. Viene affrontato, per lo più, come un disturbo da aggredire farmacologicamente, o con modalità di coping piuttosto energiche e fondate sulla fantasia di eradicare, di sopprimere un sintomo che peraltro si presenta, a sua volta, come violento, devastante.
Il panico invade il soggetto e lo terrorizza, lo immobilizza fino a farlo sentire in prossimità della fine, del baratro.
Nella prospettiva psicoanalitica, tuttavia, anche il panico non è che uno dei modi con cui si manifesta l’angoscia, e l’angoscia è ansia, paura, mancanza di risposte, mancanza di contatto, perdita di contatto e dunque perdita di senso.
Il panico è la punta di un iceberg, è il punto di massima intensità di un sentimento, di un sentire, che è profondamente umano. La paura, l’ansia, sono emozioni, cioè sensazioni ancorate profondamente al corpo, che ci aiutano a vivere. Che ci fanno avvertire un pericolo, e quindi ci permettono di fuggire, di scansarci o di lottare.
Se ogni sintomo, psicoanaliticamente inteso, non è puro effetto di un malfunzionamento biologico, di un incepparsi della “macchina”, ma dice qualcosa anche della società in cui i soggetti sono immersi, il sintomo del panico è forse l’altra faccia della medaglia, la parte ombra, di una società in cui si è apparentemente sempre connessi, sempre “con”, dove tutto sembra a disposizione ma avviene a grande velocità. Il panico rappresenta il senso di inermità, di abbandono profondo, di solitudine, che è la parte ombra, la parte negata, di una società che ci vuole sempre attivi, sempre “performanti”, sempre in grado di riempire il vuoto, la paura, il malessere, con un atto, con un oggetto, con una soluzione immediata.
È il pensiero che viene compresso dunque, pensiero inteso come capacità di pensare a se stessi, di guardarsi dentro ma anche di ascoltare, stare, dentro alle sensazioni corporee che poi sono le emozioni.
Il dott. Roberto Viganoni, insieme ai discussant Franz Comelli e Osmano Oasi, ha mostrato come il suo approccio al panico sia un approccio pratico, concreto, ma nello stesso tempo non orientato all’interventismo rapido. Il soggetto che si reca in consultazione dal dott. Viganoni, trova qualcuno che ascolta con attenzione la sua storia clinica: che bambino è stato, dove e come ha vissuto, come si è manifestato il sintomo panico per la prima volta. Ma su questa ricostruzione egli non indugia a lungo: “Ciò che è essenziale, viene fuori facilmente. Il soggetto che soffre di attacchi di panico, è un soggetto arrabbiato, di una rabbia di cui non è consapevole e che non sa riconoscere. E’ un soggetto che non è stato abituato a riconoscere le sue emozioni e che ha dovuto negarle. Congelarle. O perché doveva sostenere altri, o perché le emozioni in generale non erano tollerate, o perché, a causa di traumi precoci, non ha sviluppato la capacità di sentire e di sentirsi. Al fondo dell’angoscia panica c’è l’alessitimia, ma anche una profonda depressione”. Il primo passo, quindi, è quello di aiutare il soggetto a riconoscere e anche a nominare questi stati d’animo (la rabbia, la paura di essere sopraffatti e divorati da questo vuoto interiore), ma poiché questo lavoro non è assolutamente banale per chi non è abituato a “sentirsi”, ecco che viene in soccorso tutto l’armamentario junghiano, ma anche bioniano, del contenitore che insegna a “pensare i pensieri”. Il contenitore creato dal dott. Viganoni è un contenitore fatto di immagini, di sogni, sogni che sono nello stesso tempo enigmatici e chiarificatori. Abituare l’alessitimico a stare sulle immagini, a liberare il mondo “notturno”, onirico, è il primo passo per spostarsi dal corpo, per staccarsi dalla pura “obsistenza” del dolore incarnato, indicibile, per potersi avventurare sull’ “altra scena”, quella dell’inconscio.
I primi interventi, in trattamento, sono interventi di rettificazione (“se le batte il cuore, è segno che è vivo”. Viene detto, con molta concretezza, al paziente che riferisce di sentire, in questo battere incontrollabile e improvviso, la minaccia di morte), che obbligano a riconoscere il corpo non come ostacolo o nemico inerte, ma nella sua sostanza di materia vivente, animata, abitata dal soggetto. A questi interventi, facilmente fanno seguito le prime espressioni immaginative, che il paziente e il terapeuta si scambiano, in un luogo interstiziale che è la “mente terapeutica”. Nascono dunque i sogni, e dai sogni emergono immagini enigmatiche, paurose, ma anche piene di forze e di energie ancestrali. Il sintomo panico condivide con queste immagini, la doppia valenza di esperienza terrificante, ma anche di opportunità, di chiave, di apertura verso una nuova via. Insieme al Terapeuta, che fa da filo di Arianna, il soggetto sofferente può riconoscere e poi affrontare il suo dolore, la sua ombra, attraversarla fino a riscoprirne le potenzialità creative e i messaggi evolutivi. Come diceva Jung, bisogna essere grati ai propri sintomi, che ci mostrano la strada, la nostra possibilità di cambiamento, e ci insegnano l’accettazione, la sosta nel dolore, senza il quale comunque la vita umana non è vivibile. Il Terapeuta, a sua volta, impara, a contatto con il paziente, a sognare e immaginare con lo stile del soggetto, senza fretta e senza lasciarsi contagiare dalla paura, accompagnandolo nel viaggio verso l’ignoto e lo spaventoso, che abita anche il cuore della sua esperienza, che è quella di ogni essere umano.
Il panico è un sintomo oggi molto diffuso, pervasivo. Viene affrontato, per lo più, come un disturbo da aggredire farmacologicamente, o con modalità di coping piuttosto energiche e fondate sulla fantasia di eradicare, di sopprimere un sintomo che peraltro si presenta, a sua volta, come violento, devastante.
Il panico invade il soggetto e lo terrorizza, lo immobilizza fino a farlo sentire in prossimità della fine, del baratro.
Nella prospettiva psicoanalitica, tuttavia, anche il panico non è che uno dei modi con cui si manifesta l’angoscia, e l’angoscia è ansia, paura, mancanza di risposte, mancanza di contatto, perdita di contatto e dunque perdita di senso.
Il panico è la punta di un iceberg, è il punto di massima intensità di un sentimento, di un sentire, che è profondamente umano. La paura, l’ansia, sono emozioni, cioè sensazioni ancorate profondamente al corpo, che ci aiutano a vivere. Che ci fanno avvertire un pericolo, e quindi ci permettono di fuggire, di scansarci o di lottare.
Se ogni sintomo, psicoanaliticamente inteso, non è puro effetto di un malfunzionamento biologico, di un incepparsi della “macchina”, ma dice qualcosa anche della società in cui i soggetti sono immersi, il sintomo del panico è forse l’altra faccia della medaglia, la parte ombra, di una società in cui si è apparentemente sempre connessi, sempre “con”, dove tutto sembra a disposizione ma avviene a grande velocità. Il panico rappresenta il senso di inermità, di abbandono profondo, di solitudine, che è la parte ombra, la parte negata, di una società che ci vuole sempre attivi, sempre “performanti”, sempre in grado di riempire il vuoto, la paura, il malessere, con un atto, con un oggetto, con una soluzione immediata.
È il pensiero che viene compresso dunque, pensiero inteso come capacità di pensare a se stessi, di guardarsi dentro ma anche di ascoltare, stare, dentro alle sensazioni corporee che poi sono le emozioni.
Il dott. Roberto Viganoni, insieme ai discussant Franz Comelli e Osmano Oasi, ha mostrato come il suo approccio al panico sia un approccio pratico, concreto, ma nello stesso tempo non orientato all’interventismo rapido. Il soggetto che si reca in consultazione dal dott. Viganoni, trova qualcuno che ascolta con attenzione la sua storia clinica: che bambino è stato, dove e come ha vissuto, come si è manifestato il sintomo panico per la prima volta. Ma su questa ricostruzione egli non indugia a lungo: “Ciò che è essenziale, viene fuori facilmente. Il soggetto che soffre di attacchi di panico, è un soggetto arrabbiato, di una rabbia di cui non è consapevole e che non sa riconoscere. E’ un soggetto che non è stato abituato a riconoscere le sue emozioni e che ha dovuto negarle. Congelarle. O perché doveva sostenere altri, o perché le emozioni in generale non erano tollerate, o perché, a causa di traumi precoci, non ha sviluppato la capacità di sentire e di sentirsi. Al fondo dell’angoscia panica c’è l’alessitimia, ma anche una profonda depressione”. Il primo passo, quindi, è quello di aiutare il soggetto a riconoscere e anche a nominare questi stati d’animo (la rabbia, la paura di essere sopraffatti e divorati da questo vuoto interiore), ma poiché questo lavoro non è assolutamente banale per chi non è abituato a “sentirsi”, ecco che viene in soccorso tutto l’armamentario junghiano, ma anche bioniano, del contenitore che insegna a “pensare i pensieri”. Il contenitore creato dal dott. Viganoni è un contenitore fatto di immagini, di sogni, sogni che sono nello stesso tempo enigmatici e chiarificatori. Abituare l’alessitimico a stare sulle immagini, a liberare il mondo “notturno”, onirico, è il primo passo per spostarsi dal corpo, per staccarsi dalla pura “obsistenza” del dolore incarnato, indicibile, per potersi avventurare sull’ “altra scena”, quella dell’inconscio.
I primi interventi, in trattamento, sono interventi di rettificazione (“se le batte il cuore, è segno che è vivo”. Viene detto, con molta concretezza, al paziente che riferisce di sentire, in questo battere incontrollabile e improvviso, la minaccia di morte), che obbligano a riconoscere il corpo non come ostacolo o nemico inerte, ma nella sua sostanza di materia vivente, animata, abitata dal soggetto. A questi interventi, facilmente fanno seguito le prime espressioni immaginative, che il paziente e il terapeuta si scambiano, in un luogo interstiziale che è la “mente terapeutica”. Nascono dunque i sogni, e dai sogni emergono immagini enigmatiche, paurose, ma anche piene di forze e di energie ancestrali. Il sintomo panico condivide con queste immagini, la doppia valenza di esperienza terrificante, ma anche di opportunità, di chiave, di apertura verso una nuova via. Insieme al Terapeuta, che fa da filo di Arianna, il soggetto sofferente può riconoscere e poi affrontare il suo dolore, la sua ombra, attraversarla fino a riscoprirne le potenzialità creative e i messaggi evolutivi. Come diceva Jung, bisogna essere grati ai propri sintomi, che ci mostrano la strada, la nostra possibilità di cambiamento, e ci insegnano l’accettazione, la sosta nel dolore, senza il quale comunque la vita umana non è vivibile. Il Terapeuta, a sua volta, impara, a contatto con il paziente, a sognare e immaginare con lo stile del soggetto, senza fretta e senza lasciarsi contagiare dalla paura, accompagnandolo nel viaggio verso l’ignoto e lo spaventoso, che abita anche il cuore della sua esperienza, che è quella di ogni essere umano.
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