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27/12/2016
Il corpo e l’opera. Volontà di godimento e sublimazione. Presentazione del libro dello psicoanalista Fabio Galimberti
immagine articolo Il corpo e l’opera. Volontà di godimento e sublimazione. Presentazione del libro dello psicoanalista Fabio Galimberti Arte, pulsione di morte, sublimazione, sguardo. Se l’opera d’arte fosse un altro corpo?

Il 20 Dicembre, alla Casa della Psicologia, si è concluso il ciclo di presentazione di libri alla Casa della Psicologia, con il libro del filosofo e psicoanalista Fabio Galimberti “Il corpo e l’opera. Volontà di godimento e sublimazione”, all’interno della rassegna “inconscio e società”.

Discutevano con lui la filosofa, scrittrice e cantante jazz, Laura Pigozzi e il pittore e incisore Vittorio Emanuele, mentre dalla sala, diversi altri artisti (attori, ballerini, registi), manager e responsabili di fondazioni artistiche, hanno animato la discussione, intrecciando i loro pensieri con quelli dei numerosi psicoanalisti presenti, fra i quali Marisa Fiumanò e Marcella Cannalire.

In che senso, dunque, l’opera d’arte porta su di sé qualcosa del nostro corpo? In che senso, un poco come il Cristo (infinite volte raffigurato, e incombente in una tavola  originale dell’artista Vittorio Emanuele) l’opera d’arte partecipa di questo impossibile, di questa ossessione pulsionale del corpo? Come il Cristo, essa si offre come oggetto di godimento, come oggetto sacrificale e salvifico, al confine, tuttavia, con l’oggetto scarto per eccellenza, il corpo morto, il cadavere. Meravigliosa e molto evocativa l’opera di Vittorio Emanuele,  la deposizione del Cristo, il corpo morto, il corpo fatto scarto, prima dipinto, poi fotografato, poi ritagliato e spezzettato, poi ricomposto, e ridipinto, in una ricomposizione che appare comunque impossibile.

Per comprendere questa tesi di Galimberti, questa sua idea dell’opera d’arte come prolungamento del corpo, corpo comunque estraneo,  inevitabile è passare attraverso il concetto freudiano di pulsione,  Trieb,  che in tedesco, significa proprio “spinta”.

La pulsione è il vero concetto innovativo e anche di non ritorno della psicoanalisi, e non a caso, sottolinea Galimberti, è quello oggi maggiormente rimosso e dimenticato. Più ancora del concetto di inconscio, più ancora di quello di transfert, il concetto di pulsione è stato relegato nelle teche dei musei dell’archeologia psicoanalitica.

Invece, Galimberti ci invita fortemente a rifare i conti con questa straordinaria scoperta freudiana, rivisitata poi da Lacan.

L’incontro del corpo con il linguaggio produce un trauma strutturale e irreversibile, un esilio dal mondo dell’etologia e dell’istinto. Pulsione e istinto sono ben lungi dall’essere la stessa cosa, come molto spesso erroneamente si tende a ritenere.

L’incontro del corpo con la dimensione del significante, azzera il paradiso terrestre dell’istinto. Nel mondo animale, non c’è alcun desiderio di vedere, non c’è alcuna spinta ad ascoltare, a farsi ascoltare, a farsi guardare. Il troppo, la spinta al troppo o al niente, che è propria dell’umano, è pressoché sconosciuta nel mondo animale. Non esiste anoressia nel mondo animale, o autolesionismo, o bulimia. Il sesso è finalizzato alla riproduzione, e del tutto assoggettato all’istinto, alla sua tempistica e alle sue leggi, che non mutano, e si ripetono identiche nel tempo.

Gli occhi, le orecchie, la bocca, tutti gli orifizi del corpo, in natura, servono ad assolvere funzioni di sopravvivenza. Difendersi da un nemico, cercare cibo, soddisfare bisogni di base. Nell’essere umano, invece, anche laddove il bisogno è soddisfatto, qualcosa insiste ,e anzi persiste e stravolge lo stesso sistema biologico del soddisfacimento.

La pulsione ha una meta, ma non ha un oggetto, è come un fiume che va verso la meta, prende quel che trova, se trova, e poi torna sull’organo, sul corpo.

La pulsione è quel parassita, quel vampiro, che contorna i nostri orifizi e decide della soddisfazione anche biologica dei nostri bisogni, in qualche modo legandola, imbrigliandola, nei limiti del possibile, in un reticolato simbolico entro cui il reale della biologia, pur mantenendo una sua cittadinanza, si maschera e si perde.

E’ solo dell’umano la smania di vedere e vedersi visti, di divorare e farsi divorare, di espellere e farsi espellere.

Gli oggetti pulsionali per eccellenza, individuati da Lacan (sguardo, voce, seno, ano, fallo), cioè questi buchi attorno a cui la pulsione si addensa, non esistono, in questa accezione nel mondo animale.

In questo senso, la creazione artistica, come ogni altra sublimazione, è un tentativo più o meno riuscito di “incorporare” dentro al “manufatto”, dentro al prodotto, parte di questa pulsione, che quindi libera l’organismo, e permette al corpo vivente, attraverso questo deposito di un “troppo” di godimento, di ritrovare una sua libertà, un suo sollievo, sollievo che, in ogni caso, è sempre e soltanto momentaneo. In questo senso possiamo dire che la visione di Freud è una visione pessimistica. La pulsione è ciò che rende l’uomo schiavo e sofferente, oberato da questo carico, da questa “spinta” (che Lacan chiamerà “godimento”), alla quale egli deve riuscire ad opporre una sorta di regolazione, una minima possibilità di pacificazione, sempre precaria.

L’opera d’arte porta su di sé, proprio come un capro espiatorio, il “peso” del voler essere guardati, ammirati. L’artista supera così, grazie al “terzo” della scena, la sua vergogna, il suo conflitto, e deposita dentro l’oggetto le sue fantasie e i suoi desideri.   Che sia il quadro, prodotto dietro le quinte, in solitaria, e poi esposto anche in assenza dell’autore; che sia la voce, che attraversa il corpo dell’attore o del ballerino , ma lo trasfigura, trasformandolo in un “corpo estraneo” in un “altro corpo” il corpo metaforico, allusivo, della scena;  che sia anche la voce del cantante, che è lì con il suo corpo, ma che offre quel frammento di sé che lo attraversa e lo trafigge;  l’opera diventa una sorta di prolungamento del corpo vivente del soggetto, un “corpo estraneo” che può godere, che può esprimere tutto la pulsionalità che il soggetto è invece costretto, per quel sacrificio che la civiltà stessa e il patto sociale richiede,  a imbrigliare e a negare.

Gli artisti presenti in sala hanno confermato ma anche problematizzato il rapporto fra creazione e rapporto con il pubblico, mettendo molto in valore l’importanza che effettivamente il processo creativo riveste nella loro economia soggettiva. “Quando dipingo, devo essere da solo, e non amo essere guardato, né parlare del processo creativo, o dei significati dell’opera, che peraltro spesso non so io stesso attribuire, mentre mi capita di rimanere colpito da interpretazioni e letture che ne danno i critici. Mi pice, a volte, mischiarmi al pubblico che guarda una mia mostra, senza farmi riconoscere come l’autore, e ascoltare i commenti spontanei, guardare gli sguardi sulla mia creazione, senza essere visto, in questo anonimato che mi procura una sottile emozione” . “Quando scrivo, lo faccio perché sento una spinta, non potrei non farlo. E’ un’esigenza profondissima e solo dopo aver scritto, corretto, riscritto, magari colgo il nesso con alcune mie ricerche o con aspetti più razionali”. Altri hanno messo in relazione la creatività con la soddisfazione in altri campi della loro vita, altri ancora, con il mondo onirico e immaginativo.

L’atto creativo, e il suo situarsi fra le pieghe del reale, fra le pieghe del godimento, nel suo essere una via privilegiata ma in qualche modo quasi “immediata”, dal corpo alla sublimazione, dal corpo vivente al corpo dell’opera, è e rimane, per gli psicoanalisti un momento privilegiato di interrogazione e di ricerca.

Godimento, pulsione, pulsione di morte, desiderio e sublimazione. Un continuum da scomporre e ricomporre, all’infinito, giorno dopo giorno, in una riparazione impossibile, eppure necessaria. Dacci oggi il nostro oggetto quotidiano.
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