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Commenti dell’Ordine degli Psicologi della Lombardia al DDL n.735/2018 "Norme in materia di affido condiviso, mantenimento diretto e garanzia di bigenitorialità"
Premessa
Il DDL n.735/2018 “Norme in materia di affido condiviso, mantenimento diretto e garanzia di bigenitorialità” prevede misure e modifiche normative che affondano le proprie basi scientifiche nella scienza psicologica e che a loro volta impattano notevolmente sull’attività svolta da numerosi professionisti psicologi operanti soprattutto in ambito clinico e giuridico-forense.
In primo luogo occorre precisare che il DDL n.735/2018 muove da premesse condivisibili, anche da un punto di vista scientifico-professionale, tuttavia nella sua traduzione normativa, tali premesse non sono sempre ricondotte alla definizione di strumenti che, quantomeno sotto il profilo psicologico, appaiono adeguati e soddisfacenti. Le criticità principali si rilevano in materia di affidamento minori, rispetto al riconoscimento reale dei diritti e dei bisogni relazionali del bambino, primo fra tutti quello di mantenere legami familiari duraturi e fondanti con entrambi i genitori; per l’assunzione in prima persona da parte dei genitori delle responsabilità di cura affettiva e materiale dei figli; per l’accompagnamento della trasformazione della famiglia in separazione; per la protezione dal rischio psicopatologico che una perdita di relazione con un genitore può comportare per il figlio durante la crescita.
Se davvero i sottoscrittori del DDL n.735/2018, come da loro stessi sottolineato nella relazione, hanno inteso ispirarsi al pensiero di Arturo Carlo Jemolo, secondo il quale “la famiglia è un’isola che il diritto può solo lambire“, non si comprende come essi possano ritenere di poter imporre un regime di frequentazione o il ricorso a istituti quali la mediazione familiare, che, come giustamente sottolineato nei comunicati stampa, fra gli altri di MEDEFItalia-Mediatori della famiglia-Italia, AIP-Associazione Italiana di Psicologia e CPA-Conferenza della Psicologia Accademica, per sua natura e ambito di applicazione, si fonda sulla libera scelta dei soggetti coinvolti e si rivela tanto più efficace quanto più riesce a ottenere da loro una spontanea e consapevole adesione al progetto concordato.
Sulle competenze e la professione di mediatore e coordinatore genitoriale
Una delle proposte del DDL n.735/2018 riguarda l’istituzione di una figura di mediatore familiare, “in possesso di approfondite conoscenze in diritto, psicologia e sociologia con particolare riferimento ai rapporti familiari e genitoriali”.
Si tratterebbe di una figura di “secondo livello”, un laureato in discipline sociologiche, psicologiche, legali, mediche e pedagogiche che abbia seguito un percorso di specializzazione. Questa posizione è ritenuta solo parzialmente condivisibile, non avendo tutti i laureati in tali discipline una formazione di base che li metta in possesso delle conoscenze sopra descritte.
Si riterrebbe maggiormente tutelante che la formazione di base che permette l’accesso alla professione di mediatore sia limitata ai laureati in psicologia, giurisprudenza e ad alcune specializzazioni mediche (psichiatri, neuropsichiatri infantili), ovvero ai soggetti tipicamente “esperti” nell’ambito descritto.
Il DDL n.735/2018 non chiarisce inoltre se quella del mediatore sia una professione regolamentata o meno. Infatti, da un lato si intende istituire un Albo dei mediatori familiari, dall’altro si fa però riferimento, per le modalità di esercizio, alla L. n.4/2013 che disciplina le professioni non regolamentate in Albi ed elenchi. La L. n.4/2013 non prevede la possibilità di normare professionalità le cui attività risultino già fra quelle riservate o tipiche di professioni ordinate e richiede una normazione dell’attività professionale a carico dell’UNI-Ente nazionale italiano di unificazione. Escludendo quindi quest’opzione, considerata un lapsus tecnico, condividiamo che l’attività di mediatore possa essere:
1. definita e normata ex lege, con un proprio elenco, la cui iscrizione richiederà un esame di stato ai sensi dell’art.33 della Carta Costituzionale e la definizione dei percorsi formativi di primo e secondo livello necessari per accedervi;
2. oppure, più propriamente e con benefici deflattivi della norma e della sua applicazione, data la natura di “secondo livello” dell’attività di mediazione, quest’ultima potrebbe meglio essere definita come atto tipico riservato ad alcune professioni già esistenti e riconosciute (avvocato, psicologo, medico psicoterapeuta), con un’annotazione abilitante sul proprio Albo da parte degli Ordini di riferimento. Qualcosa di molto simile accade già oggi per l’esercizio della psicoterapia, per esercitare la quale occorre una specifica abilitazione, a seguito della quale l’Ordine dei medici o quello degli psicologi annotano sull’Albo l’esistenza di tale competenza, o per gli iscritti all’elenco dei CTU presso i Tribunali.
Sebbene nel DDL n.735/2018 venga specificato che il mediatore debba astenersi dal fornire consulenza legale o psicologica alle parti, il dubbio che il mediatore come definito dal DDL possa sovrapporre del tutto o in parte la propria attività ad alcune specifiche attività dello psicologo, in specifico dei consulenti d’ufficio e di parte rimane; la terminologia adottata non aiuta a fare chiarezza.
In merito alla norma di accesso non si comprende infine la previsione secondo la quale la qualifica di mediatore verrebbe acquisita sulla base dell’esperienza professionale solo per gli “avvocati iscritti all’Ordine professionale da almeno 5 anni e che abbiano trattato almeno 10 nuovi procedimenti in diritto di famiglia e dei minorenni per ogni anno”. È necessario contemplare un’identica norma di professionalizzazione delle competenze per gli psicologi a oggi operanti nel medesimo ambito con competenze certamente coerenti con la medesima qualifica.
Altra figura introdotta dal DDL n.735/2018 è quella del coordinatore genitoriale, che si incaricherebbe di “un processo di risoluzione alternativa delle controversie centrato sulle esigenze del minore, svolta da professionista qualificato, che integra la valutazione della situazione conflittuale, l’informazione circa i rischi del conflitto per le relazioni tra genitori e figli, la gestione del caso e degli operatori coinvolti, la gestione del conflitto ricercando l’accordo tra i genitori o fornendo suggerimenti o raccomandazioni e assumendo, previo consenso dei genitori, le funzioni decisionali”.
Nell’ambito della coordinazione genitoriale, la previsione del compito di “valutazione della situazione conflittuale” presenta due grosse criticità:
1. si sovrappone al lavoro dei CTU e dei CTP operanti quali consulenti del Giudice;
2.le funzioni di valutazione e quelle relative al trattamento non dovrebbero mai essere considerate compatibili e quindi cumulabili dallo stesso professionista nello stesso caso.
A tal proposito si propone lo stralcio della “valutazione della situazione conflittuale” dalla descrizione complessiva.
La valutazione da parte dello psicologo resta un passaggio in ogni caso imprescindibile nell’individuazione di situazioni di disagio relazionale genitore-bambino conseguente a separazione dei genitori. Tale condizione di pregiudizio per la salute psichica del bambino va sempre indagata nelle sue componenti di complessità e possibilmente risolta quale problema relazionale in un contesto professionale proprio.
Mentre si considera positivamente l’identificazione pubblica di chi possa svolgere con competenza la pratica del mediatore familiare (mediante istituzione di apposito elenco pubblico/Albo), non sfugge come per il ruolo ben più complesso del coordinatore genitoriale, al quale spetterebbe di gestire l’alto conflitto delle coppie non mediabili, il DDL n.735/2018 non disciplini la formazione specifica. Si crea dunque un pericoloso vuoto proprio sugli aspetti formativi di questa nuova ADR (Alternative Dispute Resolution), la quale, di conseguenza, rischia il paradosso per cui al coordinatore genitoriale è richiesta una formazione nemmeno pari (anzi molto inferiore!) a quella del mediatore familiare. Il testo del disegno di legge si presta a fraintendimenti, in quanto non è possibile sostenere che la formazione base di qualsiasi professione di base tra quelle indicate (psicologi, medici, assistenti sociali) o la certificazione in mediazione familiare (in attesa di Albo rimane quella europea ESQ trasfusa nelle norme UNI 11466-2016) siano rispettivamente criteri non solo di per sé singolarmente necessari, quanto sufficienti a operare nell’elevato conflitto separativo in modalità coerente con il resto della proposta.
Tra l’altro proprio l’OPL è stato il primo Ordine Regionale degli Psicologi in Italia ad avere armonizzato le linee guida professionali internazionali della pratica e della formazione in coordinazione genitoriale (AFCC) con il proprio Codice Deontologico. Ha dunque formulato le indicazioni di base per la formazione in coordinazione genitoriale e definito i prerequisiti di accesso per il professionista psicologo, comprendenti una formazione ed esperienza il più possibile completa, anche in ambito di mediazione familiare (come definita secondo le citate normative europee).
La valutazione sulla presenza di eventuali asserite situazioni di violenza domestica deve essere preliminare a qualsiasi invio - o obbligo di accesso - agli strumenti di risoluzione alternativa delle controversie (ADR), siano essi mediazione familiare o coordinazione genitoriale. Tale valutazione preliminare deve prevenire che accedano alla mediazione familiare le situazioni di violenza domestica, totalmente incompatibili con la mediazione familiare, che per questi casi non può essere obbligatoria. Le situazioni complesse devono poter garantire dei contesti di intervento (come la coordinazione genitoriale) adeguatamente adattati e sicuri nel prevenire l’esposizione delle vittime a nuovi rischi.
Sulla bigenitorialità “perfetta”
Il principio si esprime attraverso il fatto che “Il giudice assicura con idoneo provvedimento il diritto del minore di trascorrere tempi paritetici in ragione della metà del proprio tempo, compresi i pernottamenti, con ciascuno dei genitori”. Quanto agli strumenti che il DDL n.735/2018 vorrebbe introdurre a garanzia del principio cosiddetto di “bigenitorialità perfetta” (soglia minima di permanenza presso l’uno e l’altro genitore; doppia residenza del minore; mantenimento diretto), si esprimono tuttavia alcuni dubbi.
Si dà per scontato che l’affidamento condiviso previsto dalla L. n.54/2006 imponga già oggi alle coppie genitoriali separate - salvo casi estremi - la responsabilità paritetica delle scelte riguardanti i minori con benefici sul piano della tutela del diritto alla bigenitorialità. Si può altresì affermare che sul piano psicologico le competenze genitoriali paterne e materne siano paritetiche; tuttavia non per questo si possono considerare equivalenti affidamento e collocamento, o fare discendere il secondo dal primo, considerando la differenza esistente tra responsabilità decisionale sulle scelte che riguardano la prole e il tempo di vita che un bambino trascorre presso ciascun genitore.
Il contenuto del DDL n.735/2018 sul piano dell’indicazione di un tempo di collocamento identico tra i genitori riposa sul presupposto che solo una presenza di tempi di vita uguali del minore con i due genitori consenta di esercitare il ruolo di genitore sul piano psicologico, ravvisando implicitamente un vulnus in qualsiasi differenza temporale di collocamento. La clinica delle condizioni di separazione ci insegna invece che è possibile essere genitore psicologico e di godere di un’adeguata relazione genitore-figlio anche senza che vi sia una puntuale parificazione dei tempi di collocamento. Il tempo di vita trascorso insieme rappresenta evidentemente una precondizione importante di qualsiasi rapporto, ma è evidente che non si possa stabilire un principio di proporzionalità diretta tra tempo e relazione, che è definita da un insieme di variabili non solo quantitative.
Non si vuole negare l’importanza di avere un tempo congruo da trascorrere con un figlio, si esprime tuttavia perplessità sul fatto di fornire un’indicazione/prescrizione di un tempo fisso, pre-stabilito da fornire “dall’alto” al giudice istruttore del singolo caso, cui dovrebbe essere garantita massima libertà decisionale.
Va infatti considerato che il DDL n.735/2018 così elaborato lascia prevedere notevoli difficoltà di attuazione pratica in un contesto sociale ed economico, quale quello italiano, ancora molto distante dal raggiungimento di standard di parità sostanziale tra i generi sul piano dell’occupazione professionale, del welfare e delle forme di assistenza alla prole già raggiunti da altri Paesi. Attualmente la valutazione del singolo caso di separazione conflittuale dovrebbe essere effettuata dal magistrato sulla base delle richieste ma anche delle oggettive disponibilità differenziali di tempo e di risorse da parte dei due genitori. Qualsiasi indicazione prescrittiva, a priori, dei tempi di collocamento rischia in potenza, applicata al contesto italiano, di presentare rischi e potenziali lesioni della qualità di vita del bambino. Un esempio: collocare in forza di una previsione di legge un bambino per un tempo notevole presso un genitore, senza prestare attenzione al fatto che questi abbia impegni di lavoro o responsabilità che lo conducono lontano dalla propria residenza significa di fatto collocare il minore per un tempo significativo presso figure terze (nonni, asili, tate).
Non ci risultano precedenti, ovvero altri Stati che abbiano imposto ex lege una percentuale paritetica del tempo di collocamento per i figli dei genitori separati. Una simile condizione rischia di introdurre un bias (errore sistematico) imposto al magistrato che appare poco coerente con quelle premesse cui l’intero disegno di legge ha inteso richiamarsi, ovvero, anzitutto che il diritto entri con estrema prudenza e cautela nelle relazioni familiari.
Il Consiglio dell’OPL condivide il principio di una valorizzazione di entrambe le figure genitoriali; sul piano della valutazione dei collocamenti dei minori a seguito di separazioni non consensuali richiama tuttavia alla necessità di una valutazione che non può prescindere dal caso-per-caso ovvero dall’irripetibile soggettività delle condizioni psicologiche, relazionali e di vita dei singoli minori, laddove necessario con il supporto dei tecnici (CTU e CTP) incaricati dei necessari approfondimenti.
È altresì vero che il DDL n.735/2018 introduce aspetti soggettivi suscettibili di modificare l’indicazione generale di collocamento in presenza di determinate cause: “comprovato e motivato pericolo di pregiudizio per la salute psico-fisica del figlio minore in caso di: 1) violenza; 2) abuso sessuale; 3) trascuratezza; 4) indisponibilità di un genitore; 5) inadeguatezza evidente degli spazi predisposti per la vita del minore”. Anche in questi casi estremi, tuttavia, non è chiaro come si definiscano tali condizioni: è evidente che decidere se sia sufficiente a modificare il collocamento paritetico un sospetto di violenza, abuso o trascuratezza ovvero se occorra avere presentato denuncia penale, una sentenza di merito o di cassazione già formata modifica radicalmente il livello di sicurezza reale e percepita dei minori coinvolti. Inoltre occorre specificare se tali circostanze siano o meno cogenti ovvero quale e quanta autonomia possa in concreto avere il giudice nell’individuare elementi esistenziali o fonti di disagio del figlio anche di minore gravità, ma rispetto alle quali una prolungata esposizione potrebbe comunque risultare dannosa.
In conclusione, per quanto sia condivisibile il principio generale e apprezzabile il compiuto sforzo normativo, gli strumenti attualmente individuati dal DDL n.735/2018 non sembrano riuscire a conciliare con la dovuta compiutezza principi generali quali quelli della tutela del prevalente interesse del minore e del diritto/dovere dei suoi genitori a garantirgli, pur se in un contesto di separazione coniugale, un reale benessere psico-fisico con le più recenti risoluzioni nel campo delle scienze umane psicologiche, nonché con le attuali condizioni individuali e sociali in cui versa la maggior parte delle famiglie italiane.
Tutela del principio del superiore interesse dei minori
Il principio del superiore interesse del minore è sancito in maniera formale in tutte le convenzioni e dichiarazioni dedicate al fanciullo. Si pensi, in via esemplificativa, alla Convenzione di New York sui diritti del fanciullo, il cui art. 3, par. 1, disciplina il rilievo del superiore interesse del minore nelle decisioni che lo riguardano. Parimenti, l’art. 24, par. 2. della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea dichiara: «in tutti gli atti relativi ai bambini (…) l’interesse superiore del bambino deve essere considerato preminente».
In Italia le cosiddette “ACE” (Adverse Childhood Experiences) che includono le forme di maltrattamento, trascuratezza grave e abuso all’infanzia, riguardano percentuali di incidenza stimate tra lo 0,68% e lo 0,98% (Ricerca Bocconi/ThD) dei minori residenti in Lombardia e sono commesse nella stragrande maggioranza dei casi presso la casa familiare.
Rispetto alla proposta di modifica dell’art.709 ter c.p.c. in cui “ove (il giudice, ndr) riscontri accuse di abusi e violenze fisiche e psicologiche evidentemente false e infondate mosse contro uno dei genitori, il giudice valuta prioritariamente una modifica dei provvedimenti di affidamento ovvero, nei casi più gravi, la decadenza dalla responsabilità genitoriale”.
Un primo problema riguarda la natura “falsa e infondata” delle accuse di violenza. In un contesto in cui la violenza familiare non sempre è accompagnata da riscontri probatori chiari ed evidenti, un simile giudizio risulta estremamente aleatorio e pericoloso, e, così espresso, può costituire un pericoloso disincentivo alla denuncia delle situazioni di violenza familiare e di genere. Ad aggravare tale pericolo si aggiunge la previsione di vere e proprie sanzioni, in termini sia risarcitori che amministrative. È evidente che ciò comporta il rischio che, una donna o un bambino vittima di violenza, si trovi a essere multato per avere denunciato un reato non immediatamente dimostrabile.
Misure di contrasto all’alienazione parentale
Come psicologi, troviamo apprezzabile l’introduzione del concetto del “diritto relazionale” di non “vedere ostacolato il diritto al mantenimento di un rapporto equilibrato e continuativo” con ciascun genitore. In questi casi si vorrebbero assumere dei provvedimenti definiti “nell’esclusivo interesse del minore”, quando, “pur in assenza di evidenti condotte di uno dei genitori, il figlio minore manifesti comunque rifiuto, alienazione o estraniazione con riguardo a uno di essi”.
Gli psicologi non possono tuttavia trascurare un dato non solo formalistico, “di scuola”: il concetto di alienazione e la PAS non sono presenti nel DSM, e l’APA ha messo in guardia rispetto all’assenza di dati a sostegno di questa particolare condizione. Anche i termini utilizzati “rifiuto, alienazione, estraniazione” sono confusi: “rifiuto” del genitore è il dato comportamentale, per estraniazione si intende un rifiuto “motivato”, quindi non in “assenza di condotte.”
L’alienazione parentale è un disturbo introdotto dallo psichiatra Gardner nel 1985 con il nome di Parental Alienation Syndrome (PAS): “La PAS insorge durante le controversie per la custodia dei figli. La sua manifestazione principale è la campagna di denigrazione verso un genitore, una campagna che non ha giustificazioni. Essa è il risultato di una programmazione effettuata dal genitore indottrinante e dal bambino. In presenza di reali abusi o trascuratezza dei genitori l'ostilità del bambino può essere giustificata e di conseguenza la Sindrome di Alienazione Parentale, come spiegazione dell'ostilità del bambino, non è applicabile”.
Se la PAS in quanto tale oggi è un’entità non dimostrata, molti colleghi che operano nel settore come CTU e CTP, segnalano tuttavia con una certa frequenza un fenomeno clinico assimilabile a quello descritto da Gardner. Questo fenomeno si presenterebbe con una resistenza del bambino a incontrare il genitore non collocatario a causa di un’identificazione rigida con le ragioni del genitore con cui trascorre la maggior parte del tempo, generando i fenomeni descritti da Gardner (campagna di denigrazione, pensatore indipendente, razionalizzazioni deboli, alleanza automatica, ecc.).
In sintesi, è opinione della comunità degli psicologi lombardi che il fenomeno della c.d. “alienazione parentale”, non costituendo attualmente un’entità nosografica o clinica definita e univocamente riconosciuta presso la comunità scientifica, sia un concetto che deve essere trattato con grande prudenza, sconsigliandosi certamente di legiferare utilizzando un termine così controverso. Il tema dell’alienazione richiede ulteriori indagini, indipendenti da interessi di parte che offrano conclusioni scientificamente fondate e condivise dalla comunità scientifica internazionale.
Per le ragioni poco sopra esposte, a maggior ragione le misure proposte da adottare in caso di alienazione appaiono scientificamente non giustificate e potenzialmente lesive dell’integrità psicofisica dei minori, con specifico riferimento al “collocamento inverso”: “il giudice ordina al genitore che ha tenuto la condotta pregiudizievole per il minore la cessazione della stessa condotta; può inoltre disporre con provvedimento d’urgenza la limitazione o sospensione della sua responsabilità genitoriale. Il giudice può applicare in tali casi anche di ufficio e inaudita altera parte uno dei provvedimenti previsti dall’articolo 709- ter del codice di procedura civile. Il giudice, nei casi di cui all’articolo 342- bis, può in ogni caso disporre l’inversione della residenza abituale del figlio minore presso l’altro genitore oppure limitare i tempi di permanenza del minore presso il genitore inadempiente, ovvero disporre il collocamento provvisorio del minore presso apposita struttura specializzata”.
Di fronte a misure così radicali, va ricordato anzitutto che lo stesso Gardner escludeva che si potesse parlare di “alienazione” in tutti quei casi in cui “l'ostilità del bambino poteva essere giustificata”, ovvero nei casi di abbandono, trascuratezza, violenza, abuso anche solo presunto o in fase di accertamento. In difetto, il collocamento inverso e l’intero DDL n.735/2018 rischiano di trasformarsi in una sorta di patente che autorizza genitori violenti o abusanti a convivere con le proprie vittime, rischiando di collocare i bambini proprio nel luogo e presso il genitore autore di violenza dal quale dovrebbe essere protetto.
In sintesi, a fronte di una volontà politica di intervento:
fermo restando che può essere previsto da parte del giudice l’ordine di cessazione della condotta, l’inversione della residenza va considerata con estrema cautela in quanto potenzialmente traumatogena e lesiva dell’integrità psicofisica del minore, e sempre previa valutazione di un professionista competente.
Documento sul DDL n.735 del 01/08/2018 redatto dal Presidente Riccardo Bettiga e dal Consigliere Mauro Vittorio Grimoldi, approvato con delibera n.315/18 del 29/11/2018
Il DDL n.735/2018 “Norme in materia di affido condiviso, mantenimento diretto e garanzia di bigenitorialità” prevede misure e modifiche normative che affondano le proprie basi scientifiche nella scienza psicologica e che a loro volta impattano notevolmente sull’attività svolta da numerosi professionisti psicologi operanti soprattutto in ambito clinico e giuridico-forense.
In primo luogo occorre precisare che il DDL n.735/2018 muove da premesse condivisibili, anche da un punto di vista scientifico-professionale, tuttavia nella sua traduzione normativa, tali premesse non sono sempre ricondotte alla definizione di strumenti che, quantomeno sotto il profilo psicologico, appaiono adeguati e soddisfacenti. Le criticità principali si rilevano in materia di affidamento minori, rispetto al riconoscimento reale dei diritti e dei bisogni relazionali del bambino, primo fra tutti quello di mantenere legami familiari duraturi e fondanti con entrambi i genitori; per l’assunzione in prima persona da parte dei genitori delle responsabilità di cura affettiva e materiale dei figli; per l’accompagnamento della trasformazione della famiglia in separazione; per la protezione dal rischio psicopatologico che una perdita di relazione con un genitore può comportare per il figlio durante la crescita.
Se davvero i sottoscrittori del DDL n.735/2018, come da loro stessi sottolineato nella relazione, hanno inteso ispirarsi al pensiero di Arturo Carlo Jemolo, secondo il quale “la famiglia è un’isola che il diritto può solo lambire“, non si comprende come essi possano ritenere di poter imporre un regime di frequentazione o il ricorso a istituti quali la mediazione familiare, che, come giustamente sottolineato nei comunicati stampa, fra gli altri di MEDEFItalia-Mediatori della famiglia-Italia, AIP-Associazione Italiana di Psicologia e CPA-Conferenza della Psicologia Accademica, per sua natura e ambito di applicazione, si fonda sulla libera scelta dei soggetti coinvolti e si rivela tanto più efficace quanto più riesce a ottenere da loro una spontanea e consapevole adesione al progetto concordato.
Sulle competenze e la professione di mediatore e coordinatore genitoriale
Una delle proposte del DDL n.735/2018 riguarda l’istituzione di una figura di mediatore familiare, “in possesso di approfondite conoscenze in diritto, psicologia e sociologia con particolare riferimento ai rapporti familiari e genitoriali”.
Si tratterebbe di una figura di “secondo livello”, un laureato in discipline sociologiche, psicologiche, legali, mediche e pedagogiche che abbia seguito un percorso di specializzazione. Questa posizione è ritenuta solo parzialmente condivisibile, non avendo tutti i laureati in tali discipline una formazione di base che li metta in possesso delle conoscenze sopra descritte.
Si riterrebbe maggiormente tutelante che la formazione di base che permette l’accesso alla professione di mediatore sia limitata ai laureati in psicologia, giurisprudenza e ad alcune specializzazioni mediche (psichiatri, neuropsichiatri infantili), ovvero ai soggetti tipicamente “esperti” nell’ambito descritto.
Il DDL n.735/2018 non chiarisce inoltre se quella del mediatore sia una professione regolamentata o meno. Infatti, da un lato si intende istituire un Albo dei mediatori familiari, dall’altro si fa però riferimento, per le modalità di esercizio, alla L. n.4/2013 che disciplina le professioni non regolamentate in Albi ed elenchi. La L. n.4/2013 non prevede la possibilità di normare professionalità le cui attività risultino già fra quelle riservate o tipiche di professioni ordinate e richiede una normazione dell’attività professionale a carico dell’UNI-Ente nazionale italiano di unificazione. Escludendo quindi quest’opzione, considerata un lapsus tecnico, condividiamo che l’attività di mediatore possa essere:
1. definita e normata ex lege, con un proprio elenco, la cui iscrizione richiederà un esame di stato ai sensi dell’art.33 della Carta Costituzionale e la definizione dei percorsi formativi di primo e secondo livello necessari per accedervi;
2. oppure, più propriamente e con benefici deflattivi della norma e della sua applicazione, data la natura di “secondo livello” dell’attività di mediazione, quest’ultima potrebbe meglio essere definita come atto tipico riservato ad alcune professioni già esistenti e riconosciute (avvocato, psicologo, medico psicoterapeuta), con un’annotazione abilitante sul proprio Albo da parte degli Ordini di riferimento. Qualcosa di molto simile accade già oggi per l’esercizio della psicoterapia, per esercitare la quale occorre una specifica abilitazione, a seguito della quale l’Ordine dei medici o quello degli psicologi annotano sull’Albo l’esistenza di tale competenza, o per gli iscritti all’elenco dei CTU presso i Tribunali.
Sebbene nel DDL n.735/2018 venga specificato che il mediatore debba astenersi dal fornire consulenza legale o psicologica alle parti, il dubbio che il mediatore come definito dal DDL possa sovrapporre del tutto o in parte la propria attività ad alcune specifiche attività dello psicologo, in specifico dei consulenti d’ufficio e di parte rimane; la terminologia adottata non aiuta a fare chiarezza.
In merito alla norma di accesso non si comprende infine la previsione secondo la quale la qualifica di mediatore verrebbe acquisita sulla base dell’esperienza professionale solo per gli “avvocati iscritti all’Ordine professionale da almeno 5 anni e che abbiano trattato almeno 10 nuovi procedimenti in diritto di famiglia e dei minorenni per ogni anno”. È necessario contemplare un’identica norma di professionalizzazione delle competenze per gli psicologi a oggi operanti nel medesimo ambito con competenze certamente coerenti con la medesima qualifica.
Altra figura introdotta dal DDL n.735/2018 è quella del coordinatore genitoriale, che si incaricherebbe di “un processo di risoluzione alternativa delle controversie centrato sulle esigenze del minore, svolta da professionista qualificato, che integra la valutazione della situazione conflittuale, l’informazione circa i rischi del conflitto per le relazioni tra genitori e figli, la gestione del caso e degli operatori coinvolti, la gestione del conflitto ricercando l’accordo tra i genitori o fornendo suggerimenti o raccomandazioni e assumendo, previo consenso dei genitori, le funzioni decisionali”.
Nell’ambito della coordinazione genitoriale, la previsione del compito di “valutazione della situazione conflittuale” presenta due grosse criticità:
1. si sovrappone al lavoro dei CTU e dei CTP operanti quali consulenti del Giudice;
2.le funzioni di valutazione e quelle relative al trattamento non dovrebbero mai essere considerate compatibili e quindi cumulabili dallo stesso professionista nello stesso caso.
A tal proposito si propone lo stralcio della “valutazione della situazione conflittuale” dalla descrizione complessiva.
La valutazione da parte dello psicologo resta un passaggio in ogni caso imprescindibile nell’individuazione di situazioni di disagio relazionale genitore-bambino conseguente a separazione dei genitori. Tale condizione di pregiudizio per la salute psichica del bambino va sempre indagata nelle sue componenti di complessità e possibilmente risolta quale problema relazionale in un contesto professionale proprio.
Mentre si considera positivamente l’identificazione pubblica di chi possa svolgere con competenza la pratica del mediatore familiare (mediante istituzione di apposito elenco pubblico/Albo), non sfugge come per il ruolo ben più complesso del coordinatore genitoriale, al quale spetterebbe di gestire l’alto conflitto delle coppie non mediabili, il DDL n.735/2018 non disciplini la formazione specifica. Si crea dunque un pericoloso vuoto proprio sugli aspetti formativi di questa nuova ADR (Alternative Dispute Resolution), la quale, di conseguenza, rischia il paradosso per cui al coordinatore genitoriale è richiesta una formazione nemmeno pari (anzi molto inferiore!) a quella del mediatore familiare. Il testo del disegno di legge si presta a fraintendimenti, in quanto non è possibile sostenere che la formazione base di qualsiasi professione di base tra quelle indicate (psicologi, medici, assistenti sociali) o la certificazione in mediazione familiare (in attesa di Albo rimane quella europea ESQ trasfusa nelle norme UNI 11466-2016) siano rispettivamente criteri non solo di per sé singolarmente necessari, quanto sufficienti a operare nell’elevato conflitto separativo in modalità coerente con il resto della proposta.
Tra l’altro proprio l’OPL è stato il primo Ordine Regionale degli Psicologi in Italia ad avere armonizzato le linee guida professionali internazionali della pratica e della formazione in coordinazione genitoriale (AFCC) con il proprio Codice Deontologico. Ha dunque formulato le indicazioni di base per la formazione in coordinazione genitoriale e definito i prerequisiti di accesso per il professionista psicologo, comprendenti una formazione ed esperienza il più possibile completa, anche in ambito di mediazione familiare (come definita secondo le citate normative europee).
La valutazione sulla presenza di eventuali asserite situazioni di violenza domestica deve essere preliminare a qualsiasi invio - o obbligo di accesso - agli strumenti di risoluzione alternativa delle controversie (ADR), siano essi mediazione familiare o coordinazione genitoriale. Tale valutazione preliminare deve prevenire che accedano alla mediazione familiare le situazioni di violenza domestica, totalmente incompatibili con la mediazione familiare, che per questi casi non può essere obbligatoria. Le situazioni complesse devono poter garantire dei contesti di intervento (come la coordinazione genitoriale) adeguatamente adattati e sicuri nel prevenire l’esposizione delle vittime a nuovi rischi.
Sulla bigenitorialità “perfetta”
Il principio si esprime attraverso il fatto che “Il giudice assicura con idoneo provvedimento il diritto del minore di trascorrere tempi paritetici in ragione della metà del proprio tempo, compresi i pernottamenti, con ciascuno dei genitori”. Quanto agli strumenti che il DDL n.735/2018 vorrebbe introdurre a garanzia del principio cosiddetto di “bigenitorialità perfetta” (soglia minima di permanenza presso l’uno e l’altro genitore; doppia residenza del minore; mantenimento diretto), si esprimono tuttavia alcuni dubbi.
Si dà per scontato che l’affidamento condiviso previsto dalla L. n.54/2006 imponga già oggi alle coppie genitoriali separate - salvo casi estremi - la responsabilità paritetica delle scelte riguardanti i minori con benefici sul piano della tutela del diritto alla bigenitorialità. Si può altresì affermare che sul piano psicologico le competenze genitoriali paterne e materne siano paritetiche; tuttavia non per questo si possono considerare equivalenti affidamento e collocamento, o fare discendere il secondo dal primo, considerando la differenza esistente tra responsabilità decisionale sulle scelte che riguardano la prole e il tempo di vita che un bambino trascorre presso ciascun genitore.
Il contenuto del DDL n.735/2018 sul piano dell’indicazione di un tempo di collocamento identico tra i genitori riposa sul presupposto che solo una presenza di tempi di vita uguali del minore con i due genitori consenta di esercitare il ruolo di genitore sul piano psicologico, ravvisando implicitamente un vulnus in qualsiasi differenza temporale di collocamento. La clinica delle condizioni di separazione ci insegna invece che è possibile essere genitore psicologico e di godere di un’adeguata relazione genitore-figlio anche senza che vi sia una puntuale parificazione dei tempi di collocamento. Il tempo di vita trascorso insieme rappresenta evidentemente una precondizione importante di qualsiasi rapporto, ma è evidente che non si possa stabilire un principio di proporzionalità diretta tra tempo e relazione, che è definita da un insieme di variabili non solo quantitative.
Non si vuole negare l’importanza di avere un tempo congruo da trascorrere con un figlio, si esprime tuttavia perplessità sul fatto di fornire un’indicazione/prescrizione di un tempo fisso, pre-stabilito da fornire “dall’alto” al giudice istruttore del singolo caso, cui dovrebbe essere garantita massima libertà decisionale.
Va infatti considerato che il DDL n.735/2018 così elaborato lascia prevedere notevoli difficoltà di attuazione pratica in un contesto sociale ed economico, quale quello italiano, ancora molto distante dal raggiungimento di standard di parità sostanziale tra i generi sul piano dell’occupazione professionale, del welfare e delle forme di assistenza alla prole già raggiunti da altri Paesi. Attualmente la valutazione del singolo caso di separazione conflittuale dovrebbe essere effettuata dal magistrato sulla base delle richieste ma anche delle oggettive disponibilità differenziali di tempo e di risorse da parte dei due genitori. Qualsiasi indicazione prescrittiva, a priori, dei tempi di collocamento rischia in potenza, applicata al contesto italiano, di presentare rischi e potenziali lesioni della qualità di vita del bambino. Un esempio: collocare in forza di una previsione di legge un bambino per un tempo notevole presso un genitore, senza prestare attenzione al fatto che questi abbia impegni di lavoro o responsabilità che lo conducono lontano dalla propria residenza significa di fatto collocare il minore per un tempo significativo presso figure terze (nonni, asili, tate).
Non ci risultano precedenti, ovvero altri Stati che abbiano imposto ex lege una percentuale paritetica del tempo di collocamento per i figli dei genitori separati. Una simile condizione rischia di introdurre un bias (errore sistematico) imposto al magistrato che appare poco coerente con quelle premesse cui l’intero disegno di legge ha inteso richiamarsi, ovvero, anzitutto che il diritto entri con estrema prudenza e cautela nelle relazioni familiari.
Il Consiglio dell’OPL condivide il principio di una valorizzazione di entrambe le figure genitoriali; sul piano della valutazione dei collocamenti dei minori a seguito di separazioni non consensuali richiama tuttavia alla necessità di una valutazione che non può prescindere dal caso-per-caso ovvero dall’irripetibile soggettività delle condizioni psicologiche, relazionali e di vita dei singoli minori, laddove necessario con il supporto dei tecnici (CTU e CTP) incaricati dei necessari approfondimenti.
È altresì vero che il DDL n.735/2018 introduce aspetti soggettivi suscettibili di modificare l’indicazione generale di collocamento in presenza di determinate cause: “comprovato e motivato pericolo di pregiudizio per la salute psico-fisica del figlio minore in caso di: 1) violenza; 2) abuso sessuale; 3) trascuratezza; 4) indisponibilità di un genitore; 5) inadeguatezza evidente degli spazi predisposti per la vita del minore”. Anche in questi casi estremi, tuttavia, non è chiaro come si definiscano tali condizioni: è evidente che decidere se sia sufficiente a modificare il collocamento paritetico un sospetto di violenza, abuso o trascuratezza ovvero se occorra avere presentato denuncia penale, una sentenza di merito o di cassazione già formata modifica radicalmente il livello di sicurezza reale e percepita dei minori coinvolti. Inoltre occorre specificare se tali circostanze siano o meno cogenti ovvero quale e quanta autonomia possa in concreto avere il giudice nell’individuare elementi esistenziali o fonti di disagio del figlio anche di minore gravità, ma rispetto alle quali una prolungata esposizione potrebbe comunque risultare dannosa.
In conclusione, per quanto sia condivisibile il principio generale e apprezzabile il compiuto sforzo normativo, gli strumenti attualmente individuati dal DDL n.735/2018 non sembrano riuscire a conciliare con la dovuta compiutezza principi generali quali quelli della tutela del prevalente interesse del minore e del diritto/dovere dei suoi genitori a garantirgli, pur se in un contesto di separazione coniugale, un reale benessere psico-fisico con le più recenti risoluzioni nel campo delle scienze umane psicologiche, nonché con le attuali condizioni individuali e sociali in cui versa la maggior parte delle famiglie italiane.
Tutela del principio del superiore interesse dei minori
Il principio del superiore interesse del minore è sancito in maniera formale in tutte le convenzioni e dichiarazioni dedicate al fanciullo. Si pensi, in via esemplificativa, alla Convenzione di New York sui diritti del fanciullo, il cui art. 3, par. 1, disciplina il rilievo del superiore interesse del minore nelle decisioni che lo riguardano. Parimenti, l’art. 24, par. 2. della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea dichiara: «in tutti gli atti relativi ai bambini (…) l’interesse superiore del bambino deve essere considerato preminente».
In Italia le cosiddette “ACE” (Adverse Childhood Experiences) che includono le forme di maltrattamento, trascuratezza grave e abuso all’infanzia, riguardano percentuali di incidenza stimate tra lo 0,68% e lo 0,98% (Ricerca Bocconi/ThD) dei minori residenti in Lombardia e sono commesse nella stragrande maggioranza dei casi presso la casa familiare.
Rispetto alla proposta di modifica dell’art.709 ter c.p.c. in cui “ove (il giudice, ndr) riscontri accuse di abusi e violenze fisiche e psicologiche evidentemente false e infondate mosse contro uno dei genitori, il giudice valuta prioritariamente una modifica dei provvedimenti di affidamento ovvero, nei casi più gravi, la decadenza dalla responsabilità genitoriale”.
Un primo problema riguarda la natura “falsa e infondata” delle accuse di violenza. In un contesto in cui la violenza familiare non sempre è accompagnata da riscontri probatori chiari ed evidenti, un simile giudizio risulta estremamente aleatorio e pericoloso, e, così espresso, può costituire un pericoloso disincentivo alla denuncia delle situazioni di violenza familiare e di genere. Ad aggravare tale pericolo si aggiunge la previsione di vere e proprie sanzioni, in termini sia risarcitori che amministrative. È evidente che ciò comporta il rischio che, una donna o un bambino vittima di violenza, si trovi a essere multato per avere denunciato un reato non immediatamente dimostrabile.
Misure di contrasto all’alienazione parentale
Come psicologi, troviamo apprezzabile l’introduzione del concetto del “diritto relazionale” di non “vedere ostacolato il diritto al mantenimento di un rapporto equilibrato e continuativo” con ciascun genitore. In questi casi si vorrebbero assumere dei provvedimenti definiti “nell’esclusivo interesse del minore”, quando, “pur in assenza di evidenti condotte di uno dei genitori, il figlio minore manifesti comunque rifiuto, alienazione o estraniazione con riguardo a uno di essi”.
Gli psicologi non possono tuttavia trascurare un dato non solo formalistico, “di scuola”: il concetto di alienazione e la PAS non sono presenti nel DSM, e l’APA ha messo in guardia rispetto all’assenza di dati a sostegno di questa particolare condizione. Anche i termini utilizzati “rifiuto, alienazione, estraniazione” sono confusi: “rifiuto” del genitore è il dato comportamentale, per estraniazione si intende un rifiuto “motivato”, quindi non in “assenza di condotte.”
L’alienazione parentale è un disturbo introdotto dallo psichiatra Gardner nel 1985 con il nome di Parental Alienation Syndrome (PAS): “La PAS insorge durante le controversie per la custodia dei figli. La sua manifestazione principale è la campagna di denigrazione verso un genitore, una campagna che non ha giustificazioni. Essa è il risultato di una programmazione effettuata dal genitore indottrinante e dal bambino. In presenza di reali abusi o trascuratezza dei genitori l'ostilità del bambino può essere giustificata e di conseguenza la Sindrome di Alienazione Parentale, come spiegazione dell'ostilità del bambino, non è applicabile”.
Se la PAS in quanto tale oggi è un’entità non dimostrata, molti colleghi che operano nel settore come CTU e CTP, segnalano tuttavia con una certa frequenza un fenomeno clinico assimilabile a quello descritto da Gardner. Questo fenomeno si presenterebbe con una resistenza del bambino a incontrare il genitore non collocatario a causa di un’identificazione rigida con le ragioni del genitore con cui trascorre la maggior parte del tempo, generando i fenomeni descritti da Gardner (campagna di denigrazione, pensatore indipendente, razionalizzazioni deboli, alleanza automatica, ecc.).
In sintesi, è opinione della comunità degli psicologi lombardi che il fenomeno della c.d. “alienazione parentale”, non costituendo attualmente un’entità nosografica o clinica definita e univocamente riconosciuta presso la comunità scientifica, sia un concetto che deve essere trattato con grande prudenza, sconsigliandosi certamente di legiferare utilizzando un termine così controverso. Il tema dell’alienazione richiede ulteriori indagini, indipendenti da interessi di parte che offrano conclusioni scientificamente fondate e condivise dalla comunità scientifica internazionale.
Per le ragioni poco sopra esposte, a maggior ragione le misure proposte da adottare in caso di alienazione appaiono scientificamente non giustificate e potenzialmente lesive dell’integrità psicofisica dei minori, con specifico riferimento al “collocamento inverso”: “il giudice ordina al genitore che ha tenuto la condotta pregiudizievole per il minore la cessazione della stessa condotta; può inoltre disporre con provvedimento d’urgenza la limitazione o sospensione della sua responsabilità genitoriale. Il giudice può applicare in tali casi anche di ufficio e inaudita altera parte uno dei provvedimenti previsti dall’articolo 709- ter del codice di procedura civile. Il giudice, nei casi di cui all’articolo 342- bis, può in ogni caso disporre l’inversione della residenza abituale del figlio minore presso l’altro genitore oppure limitare i tempi di permanenza del minore presso il genitore inadempiente, ovvero disporre il collocamento provvisorio del minore presso apposita struttura specializzata”.
Di fronte a misure così radicali, va ricordato anzitutto che lo stesso Gardner escludeva che si potesse parlare di “alienazione” in tutti quei casi in cui “l'ostilità del bambino poteva essere giustificata”, ovvero nei casi di abbandono, trascuratezza, violenza, abuso anche solo presunto o in fase di accertamento. In difetto, il collocamento inverso e l’intero DDL n.735/2018 rischiano di trasformarsi in una sorta di patente che autorizza genitori violenti o abusanti a convivere con le proprie vittime, rischiando di collocare i bambini proprio nel luogo e presso il genitore autore di violenza dal quale dovrebbe essere protetto.
In sintesi, a fronte di una volontà politica di intervento:
- si sconsiglia la definizione del fenomeno in termini scientifici (alienazione) mantenendo una definizione esclusivamente comportamentale: “il rifiuto” del genitore non collocatario;
- è imperativo specificare l’estensione delle “evidenti condotte” dei genitori che escludono la sussistenza del fenomeno e l’applicazione delle successive misure di contrasto, giustificando l’ostilità del bambino;
fermo restando che può essere previsto da parte del giudice l’ordine di cessazione della condotta, l’inversione della residenza va considerata con estrema cautela in quanto potenzialmente traumatogena e lesiva dell’integrità psicofisica del minore, e sempre previa valutazione di un professionista competente.
Documento sul DDL n.735 del 01/08/2018 redatto dal Presidente Riccardo Bettiga e dal Consigliere Mauro Vittorio Grimoldi, approvato con delibera n.315/18 del 29/11/2018
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